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Ambiente: da utile Fruibilità a incerta Futuribilità

Durante la Pandemia, quando ci hanno privato dell’unica cosa che credevamo scontata, la libertà, tutto il mondo si è chiesto: “Quando? Quando abbiamo dimenticato di prenderci cura del Nostro Pianeta?” 

E, in Italia, da quando abbiamo iniziato a parlare di Ambiente?

E’ il 1975. Esattamente il 10 luglio, quando una nube di diossina , lentamente, copre il cielo di Seveso, in Brianza. In una fabbrica di cosmetici, l’Icmesa , un incidente in un reattore, a causa dell’elevata temperatura sprigionatasi, ha trasformato il triclorofenolo in  tetracloro-dibenzodiossina (Tcdd). 

Il più grande incidente ambientale della storia italiana.

 All’ombra delle Prealpi, il Tcdd si insediava nei polmoni e nella testa degli abitanti. I più fortunati potranno raccontarla come la peggiore esperienza della propria vita. Sgomento, rabbia porterà molte donne incinte ad abortire per paura di malformazioni. Le immagini al tg devastano e scuotono. Le previsioni sulla salute della Valle e dei suoi abitanti, a lungo termine, suonano come le note del  Tod und Verklärung di Strauss.

Sono quelli gli anni in cui, trasformando la paura in consapevolezza, comincia ad intravedersi una timida ed embrionale coscienza ambientale.

L’italiano degli anni ’70, però, era figlio del boom economico del decennio che lo precedeva. Erano gli anni delle due cifre percentuali annue del PIL. Gli anni in cui a Milano e Torino si contavano migliaia di siciliani, pugliesi, lucani, calabresi, campani. Autostrade, zone industriali, disboscamento, bonifica delle paludi, distruzione del manto vegetale a danno di flora e fauna favorivano  una cementificazione urbana che si spingeva sino alle coste, con il pretesto del Turismo. Coste battute dal mito della Vespa e della Lambretta. 

Si presentava così, l’Italia agli inizi degli anni 80. E, probabilmente con un po’ di immaturità culturale, preso dalla velocità delle trasformazioni, l’italiano medio restava indifferente al degrado che ci stava travolgendo. 

Mancava un vera cultura dell’ambiente. Mancava una direzione persino dai nostri Padri Costituenti. Stanche sedute, così definite da alcuni, sull’art 9 Cost che, ancora oggi, recitando: ”La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica . Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione”, omettono il riferimento esplicito alla tutela dell’ambiente come principio fondamentale.

 Sorda e cieca formulazione degli art. 42-44, in tema di proprietà privata, che non innovando il settore dell’edificazione ed espropriazione, trasformano il Bel Paese in un groviglio grigiastro in cui anche google maps sentirebbe una innata propensione bucolica.

 Neppure il combinato disposto tra, il già citato,  l’art 9 e l’art 32 della Costituzione sulla tutela della Salute Pubblica, crea la giusta attenzione su quanto stava accadendo. Nessun riferimento all’ambiente se non come protezione di altri interessi pubblici, quali sanità pubblica o ordinato assetto urbanistico. 

E, allora, cos’è l’Ambiente?

L’ambiente è solo un insieme di utilitates che terra, aria e acqua sono in grado di fornire all’uomo. Dal latino ambiens, participio presente del verbo ambire, che significa “circondare”, l’ambiente era solo ciò che stava intorno. 

Una visione antropocentrica in cui l’uomo, seppure al centro, è esterno alla biosfera, creata per soddisfare le sue necessità grazie alla sua capacità di plasmarla egoisticamente. Una serie di utilità individuabili in energie e risorse naturali in grado di riprodursi. 

 La popolazione mondiale, però, negli anni ’80 supera i 4 miliardi. Questo vuol dire più bocche da sfamare, più case da costruire e riscaldare e più movimenti da garantire. 

E nella visione dualistica di natura ed antropico e di dominio dell’uomo sulla prima, l’ambiente naturale, fisico ed ecologico si trova minacciato e ridimensionato a piccole oasi. In fondo, agli architetti bastava interrompere la catena di cemento con qualche spazio verde che garantiva una fruibilità dello stesso armonica e distensiva. 

Fruibilità ed utilità, in relazione ad altri diritti giuridicamente superiori. E’ nella giurisprudenza cosiddetta supplente della Cassazione prima e della Corte Costituzionale, poi, che il concetto di ambiente trova pian pianino la sua collocazione come diritto autonomo. 

Non più come collegamento alla disponibilità esclusiva di un bene, da cui trarre utilità che dipendeva dalla conservazione delle condizioni ambientali. 

Non più una tutela delle risorse naturali solo perché la loro conservazione era ritenute  fondamentali per il pieno sviluppo della persona. 

Non più il paesaggio in senso estetico. Inizia ad intravedersi un concetto più ampio e comprensivo di tutte le singole parti. 

L’ambiente come insieme di cui l’uomo fa parte, in un rapporto di interdipendenza, non di dominio.

Il diritto dell’ambiente diventa  un diritto della personalità . Un diritto soggettivo fondamentale dell’uomo, garantito da azioni riconosciute al soggetto e, allo stesso tempo un diritto oggetto di protezione da parte dei pubblici poteri, amministrativi e penali.

Eppure…..

Da quel famoso 10 luglio del 1975, si sono succeduti numerosi ed irragionevoli interventi umani a danno della natura. Come se l’idea di biosfera della quale siamo chiamati ad essere parte integrante ancora non ci toccasse. Come se l’unica cosa che importa è il presente.  Un ambiente utile e fruibile.

Cosa ne sarà della sua futuribilità?

Alluvioni, incendi, frane, scioglimento dei ghiacciai, estinzione di importanti specie animali, pandemie ci scuotono la coscienza più di quanto la paura abbia sconvolto Seveso?  Ci troviamo ancora in una posizione di aspettativa o di azione? 

E’ il 2002, quando la Cassazione riconosce, ai superstiti e familiari, in caso di compromissione dell’ambiente a seguito di disastro colposo (art. 449 c.p.), il danno morale soggettivo, cioè il turbamento psichico e lo stress subito dalla popolazione  a causa dell’esposizione a sostanze inquinanti risarcibile autonomamente anche in mancanza di una lesione all’integrità psico- fisica (danno biologico) o di altro evento produttivo di danno patrimoniale. E’ il risultato della battaglia solitaria di Giorgio P. contro l’Icmesa-Givaudan. Un piccolo imprenditore al quale la Corte d’Appello di Milano, nel 1995, aveva riconosciuto e  risarcito «la sindrome da paura che ha umiliato e condizionato gli abitanti, coinvolti di fronte all’angoscia di un  rischio personale che non poteva neppure essere dissimulato di fronte agli altri nel grave clima di allarme prodotto dal disastro».

1975-1995-2002. Anni ed anni. Troppi.

Un probabile e futuristico ricorrente del 2050 sarà seduto in giudizio difronte alla nostra generazione, sicuramente in contumacia, alla quale chiederà un risarcimento enorme, morale e non.  

Ci sarà un giudice specializzato sull’ambiente. Un giudice composto da più soggetti competenti. Siederà al tavolo un geologo, un ecologo, un economista, un filosofo, uno storico, un archeologo, un medico, un matematico, un informatico, scienziati specializzati in vari settori. Ed insieme valuteranno il nostro Presente e la futuribilità che gli concediamo. 

Siamo naufragati, è ambientale vero. Ma ci siamo ricostruiti una piccola coscienza e sensibilità. Alcuni per paura, altri con consapevolezza. I tempi sono maturi. Il futuro è oggi. 

Da quel lontano 1975, possiamo dirci migliori?

Dobbiamo sentire sulla nostra pelle quell’acre odore di diossina ed inorridirci o siamo pronti a mobilitarci affinché non ci sia mai più non solo un nuovo 1975 italiano ma un terribile 2020-21 mondiale.

Siamo disposti ancora a scaricare questo debito ai nostri figli?

Romina Lardo
Nasco sotto il Sole caldo al Nord dell'Equatore, là dove il Vespucci rivide una piccola Venezia. Volo, con la mia famiglia, nella Mesopotamia del Sud, quella Italiana. Due fiumi, Sciaura e Maglia, in Basilicata, a farmi sognare quell'"oltre" sul quale ho costruito ponti di parole. Per raccontare. Una Storia. Un'Impresa. Perché le parole restano la migliore connessione tra animi. Che sia un'Azienda o una Famiglia. Un Progetto. Qualsiasi "Oltre" in cui credo vale la pena raccontarlo.

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